Ho traslocato su erounabravamamma.it

Vi aspetto!

mercoledì 1 luglio 2015

Qualcuno mi ha scritto

Qualcuno mi ha scritto «Non so più niente di te, non posti più, dove sei finita?». Allora ho chiesto, e mi hanno spiegato che avevano l'alert che li avvisava dei nuovi post (su questo sito). Queste due righe dovrebbero servire a reindirizzare chi ancora non sa, che mi sono trasferita qui! Venite a (ri)trovarmi, l'indirizzo è appunto Erounabravamamma.it

martedì 7 aprile 2015

Quando frequentavo una rockstar

Qualche anno fa ho scritto un racconto - la Pupa andava ancora alla scuola materna, dunque doveva essere il 2009 o il 2010 - e poi l'ho lasciato lì. Mi sembra che sia arrivato il momento di pubblicarlo, dunque eccovelo. È un po' lungo, ma spero vi piaccia.

Save a prayer (Duran Duran) 

Stamattina portavo all'asilo la Pupa e assieme ascoltavamo la radio, è una cosa che le piace molto. A un certo punto ho cambiato stazione perché davano Firenze (canzone triste) di Ivan Graziani e al settimo giorno consecutivo di pioggia mi è sembrato davvero troppo. 

Certe cose ti colpiscono quando meno te l'aspetti. Come le note familiari di una ballata che scivola via interrotta solo dal rumore dei tergicristalli. «And I know there'll be/no more tears in Heaven», eccetera. Ho chiesto alla Pupa se le piaceva la voce di quel signore, e lei mi ha risposto: «Molto. Mi sembra morbida». La Pupa - come parecchi bambini di quasi cinque anni - ha lievissimi difetti di pronuncia che evito accuratamente di correggere. Perciò, per essere precisi, quel che le è uscito è stato: «Monto. Mi fembra morbida».

I Don't want to miss a thing (Aerosmith)
Nel febbraio '98 avevo appena finito l'università e lavoravo da pochi mesi nel settore spettacoli di un quotidiano. Mi pagavano diecimila lire a pezzo, diciottomila i più lunghi; su Eric Clapton di passaggio a Milano per presentare il nuovo album, Pilgrim, contavo di tirar fuori un bel servizio. Ricordo che stavo per andare a vivere da sola, e che la sera prima della conferenza stampa, mentre io preparavo scatoloni e valigie, mia madre alzò gli occhi dal libro che stava leggendo per chiedermi: «Sei emozionata?». Sono quasi sicura che non si riferisse al trasloco.
Difficile che i giornalisti chiedano autografi ai personaggi che intervistano. Alcune giustificate eccezioni sono previste. Paul McCartney, Mick Jagger, ma anche Laura Pausini se i tuoi nipotini hanno perso la testa per lei. In fila per uno scarabocchio di Eric Clapton alla fine dell'incontro eravamo almeno una trentina, ciascuno con la sua copia del cd promozionale in mano. «Thanks. My name's Paola, P-A-O-L-A». A pensarci bene una cosa che non so è dove si trovi, oggi, quel cd firmato.
Cosmic girl (Jamiroquai)
Un'ora dopo, mentre tornavo in redazione, mi squillò il cellulare. Non erano ancora i tempi in cui sul display appariva il numero del chiamante. «Buongiorno, sono la manager di Eric Clapton. Eric l'ha notata e vorrebbe il permesso di telefonarle, se lei è d'accordo». «Sì, certo, come no. Gli dia pure il mio numero, nessun problema, molto gentile».
Arrivata al giornale me la presi con i colleghi. «Siete dei deficienti, dovete smetterla di prendermi in giro. Lo sapete che mi piace coso e vi divertite alle mie spalle».
Loro mi guardarono senza capire. «Be', è che ho ricevuto la telefonata di una che si spacciava per sua manager».
«...»
«Cioè, vorreste dire che non siete stati voi?»
«...»
«Non vi credo. Guardate che a me non la si fa».
Smells like teen spirit (Nirvana)
La mattina dopo stavo percorrendo in auto il cavalcavia più lungo della città – come al solito andavo verso la redazione del giornale, in pratica vivevo lì – quando mi squillò di nuovo il cellulare. Non mi ricordo bene se all'epoca telefonare al volante non era considerato un gesto così grave o se io, avendo venticinque anni, semplicemente me ne fregavo.
«Hi, this is Eric».
«...»
«Hi, you there?»
«...»
«Paola?»
Eric Clapton – come molti inglesi di qualunque età – aveva lievissimi difetti di pronuncia che io evitavo accuratamente di correggere. Perciò, per essere precisi, quel che gli uscì fu:
«Pòla
Good vibrations (Beach Boys)
Al telefono in qualche modo riuscimmo a decidere di vederci il giorno dopo, un sabato, a pranzo. Passai ore a cercare qualcosa di carino da mettermi. Per fortuna all'epoca facevo la segretaria per un Rotary Club; e così mi presentai all'appuntamento vestita da segretaria del Rotary Club.
La pizzeria in pieno centro, scelta da lui, era uno di quei posti frequentati da vip, le pareti piene di foto del gestore del locale ritratto assieme a calciatori, attori, conduttori tv. Nemmeno eravamo entrati e già tutto il personale ci aspettava schierato: un tripudio di camerieri, bariste, maitre, responsabili di sala, tutti in fila rigidi come omini del calcio balilla, a farci strada. Che poi, che bisogno c'è di fare strada a qualcuno in un locale di trenta metri quadrati? Bisogna che tu soffra di maculopatia degenerativa oculare, per non capire dove devi andare.
Era – anche – uno di quei posti in cui pur di fare qualche coperto in più pigiano i tavolini gli uni addosso agli altri tipo vagone della metropolitana all'ora di punta. Quel giorno, in quel contesto, ero più rigida dei camerieri rigidi, ma negli anni ogni volta che ci ho ripensato ho riso al pensiero che invece per il nostro tavolo avevano riservato un angolo appartato, intere galassie distante dagli altri. E sulla tovaglia avevano appoggiato un bigliettino: «Dottor Clapton, X 2». Pensai: Dottor Clapton?
Kiss (Prince)
Nonostante le mie gravi incertezze linguistiche, i ventotto anni di differenza e il fatto che lui fosse il Dottor Clapton, l'incontro andò benino. Riuscii a ingoiare un'intera fettina di pizza, discutemmo di un anello che portavo, di una t shirt che indossava, mi chiese tante cose sulla mia famiglia e sui miei genitori. Forse parlammo un pochino anche di musica. Mi disse che amava l'Italia e che aveva tanti amici a Milano, che gli piacevo molto e che avrebbe voluto rivedermi, magari a Londra, chissà. Nel caso capitassi da quelle parti, che gli facessi il favore di avvisarlo. Mi salutò con un bacio veloce sulle labbra che mi lasciò di stucco, ma in seguito capii che lui baciava così le persone per affetto – anche la signora che gli puliva casa, per dire.
Due venerdì dopo, il giornale per cui lavoravo fallì e chiuse. Con i colleghi andammo a ubriacarci di grappa nel localetto di un amico. Incoraggiata dalla Nonino e da quei burloni con cui fino a due ore prima avevo lavorato, chiamai Eric Clapton alle undici di sera.
(Io): «Ciao, mi chiedevo cosa fai domenica».
(Lui): «Niente. Devo portare mia madre in un posto al mattino, poi sono libero».
(Io): «Ok. E lunedì, martedì, mercoledì, eccetera?»
(Lui): «Durante il giorno le prove del tour mondiale. Ma non esco prestissimo al mattino, e verso le cinque del pomeriggio sono già a casa. Poi la sera sono libero. Vieni a trovarmi?» 
Romeo and Juliet (Dire Straits) 
Nel 1998 non si compravano biglietti aerei last minute su internet. Volare costava abbastanza, e nonostante ciò il sabato mattina trovai tre amici disposti a venire a Londra con me il giorno dopo. Loro avrebbero pernottato in ostello; io, secondo gli accordi, in una delle case di Eric Clapton. «Non sta bene che io ti proponga di fermarti da me». Lui quell'anno faceva parte della commissione che giudica gli Oscar, e assieme guardammo un'ira di Dio di roba a cominciare da Titanic, sul mega schermo di uno dei salotti di casa sua, mangiando biscotti Digestive di cui lui era un grande fan. Mentre Jack-Di Caprio moriva congelato nell'oceano mi guardò con aria intensa, come colto da un trasalimento: «In effetti la mia casa è molto grande. Se non lo trovi offensivo o poco opportuno posso cedertene un'ala, senza che tu vada a stare da un'altra parte». 
Wish you were here (Pink Floyd)
Eric Clapton l'ho sempre chiamato Eric Clapton. Mai «Eric», men che meno con un soprannome. «Che fai il prossimo weekend?». «Viene a trovarmi Eric Clapton». «Bella maglietta, dove l'hai presa?». «Me l'ha regalata Eric Clapton». Per attirare la sua attenzione tossicchiavo o facevo un gesto con la mano. A volte mi intimidivo. A volte lui si accorgeva che ero intimidita e rideva. Mi sentivo sempre un po' fuori contesto: un'uggiosa domenica londinese andammo a un ritrovo degli alcolisti anonimi, una specie di festina per la fine del percorso terapeutico. Mi mise di fianco a uno stoccafisso («Paola, Nick. Nick, this is Paola») che beveva succo di mango e che trovavo noiosissimo. Dopo un po' mi chiese: «Ma è famoso anche da voi in Italia?». Capii in quel momento che era Nick Cave. 
No woman no cry (Fugees) 
Cose belle che si facevano con Eric Clapton: sfida a chi immerge il maggior numero di biscotti Digestive nel tè e poi mangia la brodaglia senza vomitare. Partite spietate e interminabili di calcio balilla in cui io venivo invariabilmente stracciata nonostante gli anni trascorsi a gareggiare in spiaggia nel ruolo del portiere. Sentirlo canticchiare Layla mentre scendeva le scale di casa mia. Ascoltarlo suonare la chitarra seduto sul divano. Andare al ristorante a Milano prenotando sotto falso nome per avere dei tavoli normali. A Londra invece era meglio prenotare col nome vero perché gli inglesi con lui sono molto garbati.
Love is a stranger (Eurythmics)
Sia io che Eric Clapton siamo del segno dell'Ariete. Testardi coraggiosi generosi e impulsivi. Acuti e ironici. Quando lui veniva in Italia, i miei amici mi pregavano di sganciare il nome del locale in cui saremmo andati, per potersi imbattere «accidentalmente» in noi. Deve aver pensato che Milano sia microscopica, o che io conoscessi decine di migliaia di persone, perché ogni volta che uscivamo incontravo qualcuno. Per caso.
Un mio amico, oggi noto giornalista musicale, all'epoca mi prendeva in giro per questa mia frequentazione. Una volta lo incontrò mentre era con me e cadde ai suoi piedi, in ginocchio, poi gli prese la mano. Abbastanza imbarazzante, ma Eric Clapton si inginocchiò a sua volta all'istante e i due restarono lì a guardarsi, gli occhi a un metro da terra, mano nella mano. Ariete=acuto e ironico.
(I can't get no) satisfaction (Rolling Stones)
Presto mi resi conto che non saremmo andati da nessuna parte. Il problema era che non riuscivo a capire se mi interessasse l'uomo o se invece il fatto che, insomma, «Eric Clapton is God». La seconda ipotesi però era più probabile. E mentre mi rimbalzavano in testa il suo anno di nascita e i nomi delle donne che aveva amato – Sheryl Crow, Naomi Cambpell, Lory Del Santo con la sua tragica storia – mi uscì finalmente un patetico discorsetto: «Sai, non voglio essere una tra le tante». Lui provò a opporsi. Aveva intenzioni serie, disse. Non gli credetti e, insomma, lo lasciai. Con grave imbarazzo restai a Londra altri due giorni a imbottirmi di Digestive; lui aveva messo il muso, mi rispondeva a monosillabi e per indispettirmi si riempiva la casa di certi artisti giapponesi che mi stavano anche molto antipatici. Questa del muso è una cosa che oggi capisco – l'orgoglio ferito, il maschio adulto eroe della chitarra e del rock liquidato da una ragazzina, eccetera – ma all'epoca mi fece uscire di testa.
Respect (Aretha Franklin)
Sull'aereo di ritorno da Londra pensai con insistenza per tutto il tempo: «Voglio precipitare». Invece atterrai a Milano e con l'aiuto di un amico interprete italiano-inglese gli scrissi una lettera formalmente impeccabile e straripante di sdegno. Dopo pochi giorni mi spedì indietro un pacco del tutto inatteso, con delle corde per basso marca D'Addario (gli avevo accennato al fatto che mio fratello, musicista in erba, le sognava, ma che per lui erano davvero troppo care) e un biglietto ragionevole e affettuoso che tra le altre cose diceva: «Mistakes and misunderstandings are always possible, when two people get to know each other». 
Bonus track: New York mining disaster 1941 (Chumbawamba) 
Frequentando Eric Clapton ho imparato diverse cose importanti, tra cui che la parola «misunderstanding» ha un bellissimo suono e che le persone intelligenti sanno ammettere di aver frainteso una cosa anche se hanno una certa età. Poi, che dovevo assolutamente studiare benissimo l'inglese, cosa che ho fatto. Infine, che quando mi aveva detto «Ho intenzioni serie» forse non mi stava prendendo in giro. Infatti pochi anni dopo ha sposato una ragazza americana non famosa, di un anno più giovane di me, da cui ha avuto tre pupe femmine. Lei faceva la hostess a un congresso in un grande albergo americano, lui aveva preso una stanza in quell'albergo, e si sono conosciuti così.
I dettagli del loro fortunato incontro me li ha raccontati proprio Eric Clapton anni dopo, quando ci siamo incontrati per un caffè. In quell'occasione mi ha anche confessato di avermi visto una volta in Autogrill – io, per la cronaca, stavo andando per lavoro a un concerto di Nek – ma di non aver avuto il coraggio di fermarmi, perché ero in compagnia di un ragazzo. Ho molto apprezzato la delicatezza, ma a posteriori dico che sarebbe stato bello salutarlo, quella volta, sulla Milano-Modena.

Soundtrack: Mentre scrivevo questo racconto ho ascoltato Songs from the Labyrinth, reinterpretazione della musica di John Dowland (vissuto nel '500) ad opera di Sting. I titoli delle canzoni che avete letto sopra invece sono quelli di una cassetta ingenuissima che avevo inciso per Eric. Non so cosa penserete di me a questo punto, però finalmente sono riuscita a togliergli il cognome.

martedì 31 marzo 2015

Vaccinare, dimenticare, partire

Ma che piccola storia ignobile mi tocca raccontare 
(Disclaimer: questo post non fa ridere. O quasi) Nel frattempo è successo che sono andata e tornata da Barcellona proprio nei giorni in cui il mondo si interrogava con orrore su quell'aereo caduto e su quelle povere persone. La cosa agghiacciante è stata che abbiamo tutti - io, e i miei compagni di viaggio - tirato un sospiro di sollievo quando abbiamo saputo che era successo per via del maledetto pilota. E da allora ci penso e non riesco a ricacciare indietro un senso di disagio misto a colpa e imbarazzo e gratitudine perché a me non è toccato.
Che non merita nemmeno due colonne su un giornale Stamattina come tante mattine ero davanti a scuola a chiacchierare e qualcuno ha detto: «Occhio che ci sono in giro gli orecchioni». Una mamma: «Speriamo che mio figlio li prenda prima di diventare grande, ché altrimenti diventa una malattia pericolosa». Io: «Ma per la parotite (nome scientifico degli orecchioni, ndr) ci si vaccina». Lei: «Ma io sono contraria ai vaccini. Cioè, non a tutti. I vaccini vanno bene per le malattie gravi tipo meningite. Per orecchioni e morbillo invece no. Queste sono malattie che ci sono sempre state, dunque vuol dire che farle ha senso».
Se tu te la sei voluta allora non importa niente Fino al 1980, quando si è diffusa la vaccinazione contro il morbillo, la malattia uccideva una media di 2 milioni e mezzo di bambini ogni anno (la fonte diretta è Wikipedia ma tutti gli studi scientifici confermano questo dato). Nel 2012 il morbillo ha ucciso 122.000 persone in tutto il mondo. Prevalentemente bambini sotto i cinque anni. Purtroppo è in aumento il numero di chi decide di non vaccinare i figli. È un trend. Una moda. In che senso fare il morbillo ha senso?
Ma se tuo padre lo sapesse qual è stata la tua colpa Un vero legame diretto tra vaccini e malattie come l'autismo non è stato mai dimostrato. Molti genitori di bambini autistici affermano che lo sviluppo dei loro figli era normale finché non hanno fatto i vaccini all'età di circa 18 mesi. Il punto è che l'autismo in genere insorge a quell'età. Proprio poco dopo l'inoculazione dei vaccini. Si tratta di una concomitanza temporale, non di un rapporto causa-effetto. Ma molte persone, come la mamma di stamattina, sono convinte del contrario, anche per colpa di uno studio famoso (Wakefield) che poi fu dimostrato falso.
Lui, che quando tu sei nata mise via quella bottiglia Se vi state annoiando, sappiate che vorrei poter dire altrettanto. Invece mi arrabbio moltissimo, soprattutto perché so che non riuscirò mai a convincere le mamme come quella che ho incontrato stamattina. Noi in casa siamo dei vaccinisti sfrenati. E mentre ero a Barcellona la Piccolissima ha ricevuto l'ultima dose dell'esavalente. Mike Delfino mi ha raccontato che ha riconosciuto il Centro vaccinale fin dalla strada, e che per farle l'iniezione hanno dovuto tenerla in tre. Un effetto collaterale c'è stato: non ha rivolto la parola a suo padre per più di un'ora, fin quando cioè lui non l'ha lasciata al nido, tra le braccia amorevoli delle maestre.
Se solo immaginasse la vergogna Quel che non vi ho ancora detto è che mi sono iscritta all'università. Un altro piccolo impegno che si somma a un lavoro (ancora) a tempo pieno, alla cura della casa, dei figli, ogni tanto anche di Mike Delfino. In attesa che mi stampino al primo esame (tra un paio di settimane circa) mi barcameno come posso. Studio nei ritagli di tempo, rinuncio al riposo, dimentico appuntamenti dal dentista. Per fare prima andiamo a scuola in bicicletta: oggi ho investito il polpaccio di un cinese che mi ha tagliato la strada scendendo all'improvviso dal marciapiede. «Ti ha detto una cosa che credo significhi "imbecille"», mi ha spiegato la Pupa, didascalica.
Era fiero di sua figlia Sono intanto orribilmente orgogliosa dei bambini. Il Pupo e la Pupa crescono e mi sono vicini, complici. Mike Delfino queste sere sta facendo tardissimo al lavoro e loro si mettono a letto quasi da soli. Vi ho già detto che il Pupo ha paura: dei mostri, del buio, dei mostri, del buio. Ieri allora li ho baciati a lungo e poi, mentre uscivo dalla stanza, ho sentito la Pupa che gli diceva: «Guarda che se vuoi c'è la mano» (lui ambisce a tenergliela stretta per addormentarsi, nell'oscurità). Gliel'ha sussurrato con un tono tenero e caldo, dentro le sue parole non c'era giudizio ma solo amore e comprensione. Ho pensato che era come se gli stesse dicendo: «Ehi, guarda che c'è l'autobus per il mondo dei sogni». Ho pensato che davvero sarei disposta a ipotecare casa se qualcuno mi dicesse che anche da grandi saranno così. Molto forti, incredibilmente vicini.

Soundtrack: È stata la mia carissima amica - colei che mi ha aiutato a far nascere la Piccolissima, sempre sia lodata - tramite un suo recente post, a farmi ricordare Piccola storia ignobile, questa bellissima canzone di Guccini a cui non pensavo da un po'. Ce n'è una versione rimasterizzata meravigliosa su Spotify. Ma potete sentirla anche su YouTube. Mi piacciono tanto, tanto, le storie intrecciate di padri, figlie e drammi - al punto che forse ci scriverò un romanzo. Allora prendetevi il lusso di ascoltarla in cuffia più e più volte, ad alto volume, soprattutto la frase in cui dice "Se solo immaginasse la vergogna". Poi provate a dirmi che non vien voglia di cantarla ad alta voce senza tema di rendersi ridicoli, come fece Julia Roberts - Pretty Woman in quella vasca da bagno che spero ricordiate, con Richard Gere, all'epoca fichissimo, nell'altra stanza ad ascoltare incredulo e poi aprirsi in un sorriso.

venerdì 20 marzo 2015

Quando una mamma si ammala

Di Pupi, Gormiti, amiche, e a volte anche papà
Trova le differenze
Ogni volta che mi sembra di avere trovato la quadra - nel caso specifico: lavoro ok, bambini sani, tata vecchia licenziata, nuova tata (forse) trovata - ecco che irrompe la vita, villana, a scombinare tutto. E mi ammalo.
Sai com'è l'amore, spietato inseguitore Scivolano via i giorni, non riesco a scrivere sul blog, un senso di angoscia crescente mi assale. Mi seguiranno ancora i miei lettori? mi chiedo, vittima dell'incertezza che sempre accompagna la malattia, la gola in fiamme, la testa che gira, il paracetamolo in dose doppia inefficace contro questa febbre maledetta.
(Come nella Settimana Enigmistica)
Nascondo le mie tracce ma sento già ansimare Quando una vita fa ho pubblicato l'amato Ero una brava mamma prima di avere figli - senza il quale non saremmo qui, oggi, a sollazzarci con piacevoli corbellerie - avevo dedicato un paragrafetto ai Gormiti, gloriosi pupazzini alti da tre a cinque centimetri, che sentivo spesso nominare ma ancora non conoscevo direttamente (il Pupo aveva pochi mesi, troppo pochi per apprezzarli). La settimana scorsa ha dormito da noi una mia cara collega romana, Alessandra, che ce ne ha portati una schiera (in origine appartenuta al suo primogenito, ormai dodicenne) in dono. Le foto che pubblico qui sono molto simili ma differiscono per un particolare essenziale: il Gormito più a sinistra, quel bel cicciottone grigio e zamputo, nella seconda immagine ha una piccola automobilina in bocca (è in grado di inghiottirla completamente e poi risputarla. Guardatela bene, perché è bellissima). 
Non posso riposare Come ogni maschio medio di sei anni il Pupo adora i Gormiti, e quando ha visto il regalo di Alessandra ha brevemente perso i sensi. Riavutosi, ha cominciato a giocarci e da allora non ha più smesso. Per loro ha reinventato il duale: «Un solo Gormito, beh, si dice Gormito. Due, Gormita. Da tre in su, mamma, è da tre in su che diventano Gormiti, con la i».
Mette mano e scompiglia i capelli Mentre la madre affonda, il figlio vive momenti di gloria alternati a dannazione. Sul suo diario l'altroieri ho letto: «Esposizione orale di un capitolo del libro I gatti di Copenaghen: molto, molto bene :-)». La maestra aveva messo anche lo smile. Sono rimasta gonfia d'orgoglio fino a sera, fin quando la rappresentante di classe mi ha telefonato: «Oggi ero a scuola e casualmente ho assistito allo show di tuo figlio. Si è completamente inventato la storia dei Gatti di Copenaghen. La maestra forse era distratta e non se n'è accorta, ma io sì. Ha raccontato che il poliziotto si ubriacava di birra e veniva inseguito dai topi. Sai, io quel libro ce l'ho a casa, e nella storia originale non ce n'è traccia. Tuo figlio è fantastico». Non ho ancora capito se fosse divertita o infastidita. In ogni caso oggi il Pupo ha compensato, tornando a casa con la seguente nota: «Il bambino, in classe, ha rovinato il suo astuccio». L'ho guardato e ho visto che uno degli elastici in cui normalmente si infilano le matite era smollato. E mi sono chiesta, ma che note danno, oggigiorno, a scuola? Voi le prendevate? E i vostri figli? E per cosa?
Peso che segna la schiena, ti incurvi e ti stanchi In queste mie ore di abbandono e distanza genitoriale Pupo&Pupa si sono convinti a vicenda di potersi tagliare i capelli e di cambiare aspetto come desiderano. «Io domani vado dal parrucchiere e me li faccio rasare a zero con due zeta scolpite sui fianchi e un ciuffetto da pazzo sul davanti», ha detto lui a sua sorella. «Io, io allora li taglio lunghissimi a destra e cortissimi a sinistra, poi me li faccio fare ricci come quelli della mamma», ha risposto lei a lui. 
«Io allora voglio avere i denti grandissimi e gli occhi azzurri», ha alzato la posta il Pupo. «Allora devi mangiare tanto cluoro» (Pupa). 
«Quello della piscina?». 
«No, quello è il cloro. Quello per i denti è il cluoro».
«Mi fa anche gli occhi azzurri?».
Ma è senza quel che peso che arranchi Poiché ho la febbre, la nostra complessa geometria è più intricata che mai. Il mio verduraio santo (e carissimo) mi porta a casa la spesa che gli ordino al telefono. I Papà di cui dispongo - della Pupa da un lato, di Pupo+Piccolissima dall'altro - aiutano come possono. Accompagnano avanti e indietro da scuola figli non sempre di loro pertinenza. S'incasinano un po' ma potrebbe andare peggio. Mike Delfino la notte scorsa ha dormito nella stessa stanza della Piccolissima (io non avrei potuto accudirla) e giura che è filato tutto liscio. Poi stamattina l'ha accompagnata al nido e si è scoperto che le aveva non si sa come lasciato infilato nei vestiti tutto l'aspiratore di plastica per raccogliere il muco nasale. «È che lei si muove quando la preparo. Rotola e raccatta quel che c'è», si è giustificato in seguito. La mia amica che lavora al nido mi ha mandato un messaggio: «Sai, lei mica si lamentava, però poi abbiamo visto che le spuntava questo tubino di plastica da una gamba del pantalone, sembrava un catetere». Mi ha detto che quando hanno capito cos'era hanno riso molto. 

Soundtrack: è una sola canzone ma è bellissima. Si intitola A poche ore, è di Pacifico, ma ci canta anche Ivano Fossati - la sua voce, all'inizio praticamente inudibile, diventa decisiva in un passaggio finale. Ascoltatela cinque volte di fila a volume alto, possibilmente in cuffia, e se per caso non vi è ancora piaciuta vi prego davvero di scrivermi e di spiegarmi perché.

venerdì 6 marzo 2015

Settimane difficili

Ho pensato di postare qui, eccezionalmente, un'immagine che ritrae nonna e nipote. Mi fa molto ridere la Piccolissima che mostra le proprie capacità di a) crearsi una barba di spaghetti in poche semplici mosse e b) in squisita contemporanea, provvedere al nutrimento di sua nonna, cioè mia madre, che ora mi metterà in croce perché ho pubblicato la sua foto. «Mi vuoi fare un dispetto? Sembro una scema mentale», mi dirà (lo dice sempre).
Il cuore rallenta, la testa cammina Qui a Milano è molto famosa la Settimana della Moda ma quasi nessuno conosce la Settimana degli Ostaggi, da cui siamo - fortunosamente - appena usciti, per giunta vivi. La Settimana degli Ostaggi è quella in cui il Collega Olandese di Mike Delfino cala su di noi, sulla mia famiglia cioè, e ci tiene in ostaggio. Il Collega Olandese di nome fa Leander ma il Pupo quando aveva tre anni aveva capito Alessander e da allora, con sua sorella, lo chiama così.
Il punto di vista di Dio Mi spiace molto non avervi mai parlato prima di Alessander e intendo fare ammenda. Alessander è l'equivalente olandese di Chuck Norris. Lo conoscete? Cito da Nonciclopedia: «Lui sa tutto e ha sempre ragione. E anche quando sbaglia, non è lui che sbaglia. È la verità a essere errata». Un esempio recente: il suo bancomat, ci ha spiegato, può prelevare fino a 5.000 euro (!). Purtroppo nei giorni scorsi ha provato a usare i bancomat italiani ma ha scoperto con sommo disdoro che gli sportelli ATM sono tutti guasti, infatti gli davano solo 250 euro.
Porto il nome di tutti i battesimi Alessander ha due figlie e una compagna che gli è estremamente devota. Le bambine hanno 4 e 8 anni e sono le più brave della classe, però lui fa di tutto per trasmettere loro il valore dell'umiltà. Da bambino, siccome era troppo intelligente, aveva adottato questa strategia per non farsi notare: all'orale, interrogato, prendeva 10 (infatti bastava che aprisse bocca perché gli uscissero incontrollate frasi geniali e azzeccatissime, in tutte le materie). Per controbilanciare, consegnava i compiti scritti in bianco e prendeva 0. Media: 5, che in Olanda, ci ha spiegato, equivale alla sufficienza.
Ogni nome è il sigillo di un lasciapassare Nonostante cercasse di non far vedere che era troppo intelligente, Alessander era oggetto delle altrui invidie. Persino sua madre era invidiosa di lui. Da bambino veniva schernito, i fratelli gli facevano un sacco di dispetti e gli nascondevano persino le scarpe per farlo tardare a scuola. Ma lui si stringeva nelle spalle e affrontava a testa alta le difficoltà, arrivando al punto di andare, un giorno, a scuola senza scarpe.
Per un solo dolcissimo umore del sangue Il nostro Alessander conosce un numero variabile tra sei e otto lingue (dipende dalle volte). Se solo volesse, per impararne una nuova gli basterebbero due settimane. L'italiano non lo parla per scelta sua, ma capisce tutto. Fino a due anni fa fumava due pacchetti di sigarette e beveva venti caffè al giorno «ma i suoi esami erano perfetti», e aveva «cuore e polmoni di un olimpionico ventenne». Poi ha avuto un infarto, ha smesso di fumare, ha vissuto a lungo «con tre litri di sangue nel corpo». L'hanno riempito di medicine per guarire ma lui non le ha prese «quasi mai» e si è curato da solo, con alcuni bizzarri integratori vitaminici che ha insistito per far provare anche a me.
Che bella compagnia Prima dell'infarto, Alessander andava a letto alle tre di notte e si svegliava all'alba (per forza, con tutti quei caffè e sigarette). Il suo fisico non risentiva affatto di simili ritmi, ma il nostro sì. Dovete sapere che Alessander negli affari è un drago e guadagna «anche 100mila euro al mese» ma quando viene in Italia preferisce dormire da noi «perché si sente più a casa». La cosa positiva dell'infarto è che ora attorno a mezzanotte è possibile metterlo a letto.
E ogni terra si accende e si arrende la pace Alessander mi dà consigli strategici sul mio libro, sugli articoli, sul mio lavoro in genere. Mi darebbe consigli anche sul blog, se sapesse che esiste. In Olanda ha una casa editrice di successo, un'attività di successo nel campo del design, una moglie di successo che lavora con lui. È un pacifico non violento ma di recente ha dovuto prendere a schiaffi un suo collaboratore che l'aveva esasperato. Siccome il suo collaboratore è alto più di 1.90 e lui solo 1.80, mi ha spiegato che si è trovato meglio a picchiarlo da seduto.
Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare Quando me l'ha raccontato gli ho chiesto se il collaboratore l'ha poi denunciato, o qualcosa di simile. «No. Anzi, dopo due giorni di tensione è venuto a chiedermi scusa perché ha capito di avere sbagliato», mi ha spiegato. Ieri Mike Delfino ha provato a convincermi ad accompagnare lui e Alessander a Parma, al Mercante in fiera. «Guarda che quando viaggia in auto si affievolisce, si autoelide, è capace di star zitto per minuti di fila». Io però non gli ho creduto, e ho lasciato che ci andasse da solo. Partiti all'alba, sono tornati a notte fonda perché Alessander aveva fiutato ottimi affari «in ogni angolo della fiera», anche se forse ora, ci ha detto, si sta un po' stufando del design e vorrebbe aprire una serie di gelaterie in tutto il mondo «per sbaragliare Grom».
Mastica e sputa Io non lo so se anche nelle vostre vite c'è un Alessander. Se c'è, vi prego di raccontarmelo perché è molto consolatorio condividere questo genere di esperienze. Ho molte altre cose da dire su di lui ma la più importante è che noi, a conti fatti, gli vogliamo bene. È un buon collega, una persona affidabile e - a parte le gigantesche panzane che spara - a suo modo è pure onesto. Ho molti altri aneddoti e se questo filone vi piace sarò lieta di approfondirlo. Come si dice dalle mie parti: fatemi un fischio.

Soundtrack: il papà della Pupa mi ha spiegato che posso embeddare il link senza stare a raccontarvi ogni volta il percorso che faccio per ascoltare quel che ascolto mentre scrivo. In teoria dovrebbe essere questo, spero funzioni. Comunque è Anime salve di De André. In loop ho sentito Khorakhanè - A forza di essere vento, che contiene alcune delle frasi più belle che siano mai state scritte nella storia (non solo della musica). N'est-ce pas?

mercoledì 25 febbraio 2015

La versione di Pif

Ci sono cose che val la pena raccontare, altre che forse meno
Dopodomani che è venerdì, a Milano, libreria Feltrinelli, presentiamo il nostro romanzo. Se qualcuno di voi volesse passare mi farebbe immensamente felice. Una cosa buffa tra le tante cose buffe che stanno succedendo attorno a questo libro è che Pif - immagino di non dovervi raccontare chi è - ha vissuto per alcuni anni in casa della mia coautrice, di cui è molto amico, e ha assistito alla sua conversione da gaudente onnivora a vegana.
Suppose I never ever met you Quando ancora non dovevo occuparmi di ventisei bambini e un cane, e Pif era meno Pif di adesso, e con ciò voglio dire che tutti eravamo un po' più agili e meno impegnati di oggi, capitava che cenassimo assieme e lui mi dicesse, con l'espressione seria e concentrata che gli conoscete, scandendo bene le parole: «Vedi, Paola, io possibilmente mangio solo cose che abbiano le zampe». Niente frutta, niente verdura. «Soprattutto niente cose piccole come i piselli. Sai, così minuscoli... mi fanno impressione». Sarà divertente, venerdì, sentirlo raccontare il suo sconcerto quando la mia amica ha abbandonato pollo e gamberetti per consacrarsi al seitan e al cavolo rapa.
If I kiss you where it's sore È proprio vero che esiste la legge del contrappasso. Di recente ho appreso che la fidanzata di Pif è vegetariana, e che lui per amore non mangia più carne ma solo pasta e verdure (sì, pure i piselli). Comunque più rifletto su questo libro più mi rendo conto che il cibo ha un ruolo davvero centrale nelle nostre vite, simbolico oltre che pratico intendo. Forse in Italia più che altrove nel mondo. Il mio amico di Berlino mi racconta che per loro non è comune cenare, e che in genere vanno a letto dopo aver mangiato un po' di pane e formaggio, magari uno yogurt. Io mi taglierei le vene dopo tre giorni, ma loro sono contenti così. Per non parlare dei Paesi del Nord Europa in cui la gente mangia camminando, pescando con le mani da cartocci unti in cui è infilato chissà che.
Da che punto guardi il mondo L'altro giorno la bicicletta mi ha tradito. Ho imboccato la rampa che porta ai box proprio sotto il mio ufficio, ho schiacciato i freni per scendere piano e... tlac! Uno dei due ha ceduto. Ho sussultato nel vedere il portellone del garage venirmi incontro a velocità considerevole. Sempre più veloce, sempre più vicino... non ho fatto in tempo a pensare un granché: giusto che di lì a poco mi sarei schiantata e avrei potuto farmi molto male, lasciando i miei figli orfani - o con una madre viva ma paralizzata. Per fortuna il signore - non lo scrivo maiuscolo ma ho pensato fosse proprio lui - ha guardato giù: il portellone del garage, ho avuto modo di scoprire al momento dell'impatto, non era di rigido metallo ma fatto con un telone di plastica grigia, molto morbido, che ha attutito il colpo. Ci ho sbattuto contro, sono caduta dalla bici, mi è spuntata una terza chiappa sul gluteo sinistro. Ma non mi sono rotta nulla. Con le gambe che mi tremavano sono salita alla reception. «Scusate», ho detto alle ragazze. «Volevo avvisarvi che sono andata a sbattere in bici contro il portellone». Una mi ha guardato e mi ha detto: «Si è fatta male?». Nello stesso momento, l'altra ha pronunciato queste esatte parole: «Il portellone si è rovinato?». Ho pensato che è proprio vero. Da che punto guardi il mondo, tutto dipende.
Gracias a la vida Nella friabile terra di nessuno che separa la veglia dal sonno, ieri sera il Pupo mi ha sussurrato una storia. «Sai mamma, la maestra ci ha raccontato che quando lei era piccola nella sua classe c'era un muro. I bambini in castigo venivano messi in piedi contro quel muro e se ne stavano lì, tristi. Per questo l'avevano chiamato il muro del pianto». «Ma pensa, Pupo. E io che per anni ho creduto che il muro del pianto fosse tutt'altra cosa». «Invece nella mia classe, mamma», mi ha mormorato lui prima di cedere alla stanchezza, «abbiamo un muro che chiamiamo muro dei desideri». «Come funziona, amore?» gli ho chiesto accarezzandogli i capelli. «Tu vai lì e gli dici a bassa voce un desiderio. E se fai il bravo la mattina dopo torni in classe e lo trovi avverato, sul tuo banco». «E tu cos'hai desiderato, amore?». «Un transformer, mamma. Mi è arrivato un po' scassato, però è arrivato. Domani te lo mossstro», mi ha detto sorridendo, con gli occhi già chiusi, poi si è addormentato.

Soundtrack:
Ascoltate su Spotify tutto l'album di Regina Spektor, Begin to hope. E poi, anche se avete giurato a voi stessi che non l'avreste sentita mai più, date un'altra occasione a Tutto dipende di Jarabe de Palo. E per finire: mi toglie sempre il fiato Gracias a la vida. L'ha cantata per prima Violeta Parra, poi l'ha rifatta mezzo mondo. A me piace tanto anche nella versione di Mercedes Sosa.


giovedì 12 febbraio 2015

Come sopravvivere a un vegano (e ad altri eventi della vita)

Una storia vegan.
Oggi esce il mio romanzo!
Sei anni fa - avevamo entrambe partorito da poco, io il Pupo, lei la sua primogenita, aka la Bambina Empatica - la mia amica storica mi ha annunciato che sarebbe diventata vegana. Il suo compagno pensava già da tempo che quello fosse l’unico modo giusto (e degno, ed etico) di nutrirsi. «Proprio tu, P., che vivresti di sushi e salumi?» le chiesi quando, superato lo choc iniziale, riuscii a pronunciare una frase di senso compiuto.
Fare a meno La mia amica Paola - si chiama così - ha trascorso gli ultimi anni a studiare e impratichirsi. Ha svezzato e cresciuto vegane sia la Bambina Empatica che la Bambola-Terremoto (la sua secondogenita, che oggi ha quattro anni). Ha praticato una sorta di epurazione costante e progressiva: chi mangia veg in genere è anche green nell'animo, o è destinato a diventarlo. E così - incoraggiata e sorretta dal suo compagno - ha eliminato l'auto, rinunciato ai viaggi aerei, ai detersivi, ai capi d'abbigliamento che contenessero anche solo un centimetro quadrato di pelle e una serie di altre cose che non vi sto a dire ora ma che poi leggerete.
Salvare il mondo Il compagno della mia amica è una specie di irreprensibile supereroe vegano. Per lui non esistono azioni neutre: di ogni cosa si chiede se sia buona o cattiva, se faccia bene al pianeta oppure no. Boicotta il circo. Raccoglie e salva piccioni feriti. Non uccide nemmeno camole, tarme e zanzare. Frequenta comunità tipo Ippoasi e fa meditazione Vipassana.  Come un saltatore in allenamento, sposta ogni giorno l’asticella. Sempre più in alto. Sempre più santo. Si informa, studia, cita statistiche: «Chi non mangia carne può salvare fino a 50 animali all’anno», ripete sempre alle sue bambine.
Livin' la vida vegan La scorsa primavera, il secondo choc: Paola è tornata onnivora. Ha capito e deciso che la vita veg non faceva più per lei. «In fondo, sai, ero una cos player vegana», mi ha confessato. E così, assieme abbiamo pensato di scrivere un libro ispirato alla sua storia, che è poi la storia di tanti. Oggi in Italia, secondo l'ultimo rapporto Eurispes, i vegetariani sono quattro milioni e 300.000, i vegani più di 400.000. Una dieta “verde”, ci viene detto e non a torto, protegge da tumori e cardiopatie, è altamente sostenibile – produrre un chilo di carne per esempio costa quanto produrne dieci di cereali – e, naturalmente, cruelty free. Ma non è per tutti.
Sgombrare il campo dai dubbi Il nostro libro avrebbe dovuto intitolarsi Come sopravvivere a un vegano (e ad altri eventi della vita). Però, dopo averlo letto, l'editore ha commentato: «Ehi! Non è un manuale semiserio come pensavamo all'inizio... è un vero romanzo!». E così, felici di aver ricevuto una promozione, gli abbiamo cambiato il titolo e l'abbiamo chiamato Straziami ma di tofu saziami. Io credo che, proprio come questo blog, Straziami vi farà ridere, riflettere e pure commuovere. Spero che amerete questo mio figlietto come amate Ero una brava mamma. Dal canto mio, scrivendolo, ho capito tante cose: per esempio che per essere buoni vegani non ci si improvvisa. Che occorre studiare gli esatti equilibri tra verdure e legumi, attrezzarsi a uno slalom virtuoso tra solanacee, seitan e besciamella di soia, compilare accurati elenchi di cibi proibiti, prevedere qualche integratore (di vitamina B12, per esempio); essere particolarmente cauti se nella scelta dei genitori sono coinvolti anche i figli, verso i quali buon senso vorrebbe – ma non sempre è così – che ogni rigidità sia vietata. Potrei andare avanti per ore, ma (per ora) mi fermo qui.